possagno, canova e la cura
Cari amici,
l’articolo di oggi segna l’ultimo appuntamento di questa stagione.
Dopo 15 giovedì insieme, #FattoreB va in vacanza e si riaccenderà a settembre.
Voglio chiudere questa stagione parlandovi di un nuovo luogo che è stato fonte di ispirazione per i miei romanzi.
Un luogo non troppo conosciuto, ma importantissimo per aver dato i natali a uno dei più grandi scultori italiani.
Oggi vi parlerò di Possagno e Antonio Canova.
Quando si arriva a Possagno, un minuscolo paese ai piedi del Monte Grappa, si resta colpiti dall’imponenza solitaria di un tempio neoclassico che si staglia nel verde delle colline venete.
Una chiesa, costruita nella prima metà dell’Ottocento, con chiari riferimenti a gloriose epoche antiche: la facciata ricorda il Partenone di Atene, mentre il corpo centrale si ispira al Pantheon di Roma.
Neoclassicismo
“Perché in un paesino sperduto del Veneto esiste una costruzione come quella?”
La domanda me la sono posta a sette anni, quando capitai per la prima volta a Possagno in una gita della domenica.
La risposta me la diede mio padre:
“Perché qui è nato Antonio Canova, un grandissimo scultore, genio assoluto del Neoclassicismo. Lo studierai a scuola e magari tornerai in questo luogo.”
A quell’età non capivo esattamente che cosa volesse dire Neoclassicismo, ma mio padre fu profetico.
In quel luogo ci sono tornata più volte e, in una delle ultime, ebbi l’ispirazione per scrivere il mio romanzo Io ti amo.
La Gypsotheca e Chiara
Nel centro abitato di Possagno si apre un piccolo portone sovrastato da un’insegna che si fa largo tra due finestre.
Sopra c’è scritto: “Qui nacque Antonio Canova”.
L’edificio è la casa natale dell’artista e ospita al suo interno la Gypsotheca: una straordinaria raccolta di modelli in gesso, le sculture preparatorie di Canova, da cui presero vita alcuni dei suoi capolavori in marmo.
Ho visitato quel luogo accompagnata da una bravissima guida di nome Chiara: la sua enorme conoscenza, unita a una spiccata dose di ironia e naturalezza, mi hanno permesso di vedere il Maestro come un uomo prima ancora che come un autentico genio.
Genio appassionato
Antonio Canova (1757-1822), figlio d’arte, era stato educato al mestiere dal nonno, perché il padre era morto giovane.
Si formò a Venezia e poi a Roma, le mie due “città del cuore”.
A Roma visse molti anni, a più riprese. Viaggiò molto in Europa. Non si sposò, né ebbe mai figli, ma diede alla luce innumerevoli figli di marmo, che ora vivono nei più prestigiosi musei del mondo.
Un particolare mi colpì nel racconto di Chiara. Mi disse che Canova era un grande lavoratore, capace di restare nella sua bottega anche 14 ore di seguito. All’epoca non c’erano luci artificiali e strumenti elettronici. Per traforare il marmo, l’artista utilizzava un trapano manuale che appoggiava al torace. L’uso prolungato di quello strumento compromise la sua salute, tanto da procurargli una deformazione alle costole e gravi disturbi allo stomaco. Negli ultimi anni di vita Canova fu costretto ad alimentarsi di cibi semiliquidi, ma continuò a produrre in maniera incessante, spinto dal fuoco della passione.
Papi e sovrani, nobili e ricchi borghesi, artisti e intellettuali italiani e stranieri visitarono lo studio di Canova a Roma.
Il pittore Francesco Hayez ne ha lasciato una precisa e vivace descrizione:
“Lo studio si componeva di molti locali, pieni di modelli e di statue, e qui era permesso a tutti l’entrata.
Il Canova aveva una camera appartata, chiusa ai visitatori, nella quale entravano solo coloro che avessero ottenuto uno speciale permesso. Egli indossava una specie di veste da camera, portava sulla testa un berretto di carta; teneva sempre in mano il martello e lo scalpello anche quando riceveva le visite; parlava lavorando, e di tratto interrompeva il lavoro, rivolgendosi alle persone con cui discorreva.“
Amore e Psiche
Nel Museo di Possagno, all’interno di una stanza, è stato ricreato lo studio dell’artista con strumenti e bozzetti dell’epoca. Entrando lì dentro e soffermandomi a osservare i “ferri del mestiere”, ho avuto l’impressione di sentire la voce del Maestro.
Guidata da quella presenza silenziosa, ho raggiunto la sezione della Gypsotheca in cui è conservato il modello originale dell’opera che è al centro di Io ti amo: Amore e Psiche stanti (oggi conservata in duplice copia, una si trova al Museo del Louvre a Parigi, l’altra all’Ermitage a San Pietroburgo).
Il mito classico a cui si ispira la scultura è piuttosto famoso, dunque non starò qui a raccontarvelo.
Vi ripropongo solo il brano in cui Elena – siamo circa a metà di Io ti amo – si aggira tra le opere esposte in una mostra a Roma e, all’improvviso, si ritrova davanti al gruppo scolpito da Canova.
Un attimo eterno
“Facendomi largo tra le persone, mi fermo a guardare la seconda opera, Amore e Psiche stanti.
In questa, i due amanti sono in piedi. Psiche, seminuda, con dolcezza afferra la mano di Amore e vi posa sopra una farfalla, mentre lui, nudo, si abbandona delicatamente sulla spalla di lei e le cinge il collo con il braccio destro.
I loro corpi accostati l’uno all’altro suggeriscono un forte senso di unione, così come il gioco dei loro sguardi; la passione amorosa, sul punto di esplodere nell’altra scultura, sfuma qui in una tenera contemplazione.
È un momento intimo, al di fuori del tempo e dello spazio, la cristallizzazione di un attimo eterno: Psiche mette nelle mani di Amore la sua anima, donandosi a lui.
…
Guardo le due sculture, così diverse tra loro, e mi sento percorsa da un fremito.
In quei corpi scolpiti nel marmo rivedo me e Leonardo, noi e i nostri cambiamenti di questi anni: dalla passione travolgente dei primi mesi – Leonardo che risveglia i miei sensi addormentati come Amore risveglia Psiche dal sonno – all’unione equilibrata e piena di emozione di adesso, il nostro viverci accanto, il nostro farci da sostegno l’uno all’altra.
Anch’io, come Psiche, ho dovuto superare dure prove per ritrovare l’uomo che amo: mettere da parte l’orgoglio, accogliere il dolore, vincere la paura. Gli ho donato la mia anima senza riserve ma questo mi ha resa ancora più forte perché, sono certa, lui saprà averne cura, lui che a sua volta ha messo la propria vita nelle mie mani.”
Chissà se Leonardo saprà davvero averne cura…
E noi, pensiamoci bene, sappiamo davvero avere cura dei nostri affetti? Dei piccoli miracoli d’amore che accadono nelle nostre vite?
Vi lascio con questa domanda e con un invito: andate alla Gypsotheca, è una visita che lascia il segno negli occhi e nel cuore.