sulpicia e le altre
Continuiamo il nostro viaggio nell’universo femminile dell’antichità.
Oggi vi parlerò della donna romana.
Presso i primi Romani, che per ben cinque secoli non conobbero altro che la spada e la zappa, le donne vivevano in stato di soggezione e schiavitù.
Le leggi davano ai mariti diritto di vita e di morte sulle mogli, e sottoponevano la donna al rigore e al capriccio dei tribunali, oltre che alla censura dei magistrati.
Vietato farsi belle!
Le leggi suntuarie prescrivevano regole precise per l’uso delle vesti e degli ornamenti: guai eccedere, guai farsi belle!
Pensate che un tale Ignazio Metello uccise crudelmente la moglie solo perché aveva bevuto del vino. Per non parlare di Caio Sulpicio Gallo, che ripudiò la moglie perché era uscita di casa senza velarsi il capo.
Insomma, va detto, per i primi cinque secoli di civiltà, le Romane non se la passarono proprio bene.
Tra matrimonio e famiglia
Intorno all’Anno Zero le cose iniziano a cambiare.
Innanzitutto, cade in disuso il vecchio matrimonio, che trasferiva la moglie nella famiglia del marito in condizioni di completa sottomissione all’uomo. Per i matrimoni, inoltre, non sono più necessari i vari riti nuziali celebrati nei secoli precedenti. Adesso, perché due persone vengano considerate “sposate”, basta che decidano di vivere insieme con l’intenzione di essere marito e moglie.
Viene poi introdotta un’importante riforma all’interno della famiglia.
Anticamente, la sola parentela riconosciuta dal diritto romano era quella in linea maschile, e quindi tra la madre e i figli non esisteva per legge alcun rapporto di parentela.
Ora, invece, viene restituito valore legale anche alla discendenza in linea femminile.
Un po’ alla volta le donne romane cominciano a godere di migliori condizioni di vita e di un’autonomia una volta impensabile.
Le “emancipate”
Se hanno la fortuna di appartenere alle classi alte, ricevono un’istruzione e possono usare il loro patrimonio come vogliono. Possono anche chiedere il divorzio, facoltà che spettava ai soli uomini.
Sono, questi, gli anni della cosiddetta emancipazione, durante i quali, a Roma, esistono donne medico, donne avvocato, o donne letterate che scrivono poesie.
Donne “emancipate” e per questo detestate dagli uomini, come sappiamo dal poeta latino Giovenale: la sua Sesta Satira suona come una ferocissima accusa contro il sesso femminile.
Le letterate
Ma torniamo per un attimo alle donne letterate, a cui mi viene naturale rivolgere almeno un pensiero.
Sulpicia è l’unica poetessa romana di cui possiamo leggere le opere.
Questo non significa, però, che sia stata l’unica donna romana ad aver scritto poesie. Significa che, se anche altre donne le scrissero, le loro opere non furono conservate.
Perché? Forse perché di scarso valore letterario? Ovviamente, non possiamo sapere quale fosse questo valore. Ma, anche ammesso che fosse modesto, il motivo non è questo.
La scomparsa delle opere letterarie femminili non è dovuta al caso, ma è legata a ragioni specifiche, fin troppo facili da individuare.
In primo luogo, le donne non avevano la possibilità di far conoscere e diffondere le loro opere e, forse, il più delle volte neppure ci pensavano.
In secondo luogo, erano uomini coloro che valutavano se inserire o meno un’opera tra quelle da tramandare ai posteri: neanche lontanamente gli sarebbe passato per la testa di prendere in considerazione opere scritte da donne.
Il coraggio di Sulpicia
Il caso di Sulpicia ne offre una dimostrazione evidentissima.
Le sue poesie, infatti, ci sono giunte sotto il nome del poeta Tibullo, al quale vennero attribuite.
Ma chi era Sulpicia?
Era una fanciulla dell’aristocrazia romana, vissuta al tempo dell’imperatore Augusto.
Sulpicia è una donna che sa badare a sé stessa e che decide autonomamente della sua vita.
Senza preoccuparsi delle convenzioni, parla infatti liberamente della sua vita sentimentale.
È di certo una donna emancipata, e a dimostrarlo basta una delle poesie da lei dedicate a un certo Cerinto:
“È giunto l’amore, finalmente. Nasconderlo sarebbe assai più grave vergogna che svelarlo. Commossa dai miei versi, Venere lo portò sino a me, tra le mie braccia compì la sua promessa. I miei peccati li narri chi, si dirà, non ebbe i suoi. Io quasi non vorrei neppure scriverli: prima di lui, temo li legga un altro. Ma giova aver peccato. Mi disturba atteggiare il mio volto alla virtù. Si dirà che son degna di lui, e lui di me.”
E oggi? Ci sono più scrittrici o più scrittori? Più poetesse o più poeti?
A voi la risposta e al prossimo giovedì.